
La Sindrome di Stoccolma: legarsi per sopravvivere alla prigionia
Si definisce Sindrome di Stoccolma una specifica condizione psicologica, pur non riconosciuta dai manuali di classificazione clinica come disturbo mentale, caratterizzata da un paradossale legame affettivo che le vittime di un rapimento, un sequestro di persona o anche di violenza domestica instaurano con quelli che sono i loro carcerieri.
Il sequestrato, contrariamente ai sentimenti di disprezzo o avversione che ci si aspetterebbe in tali estreme situazioni, comincia invece a provare empatia, attaccamento e fiducia fino ad arrivare, in alcuni casi, all’innamoramento nei confronti del proprio carnefice.
Ma perché accade questo?
Una motivazione potrebbe essere ritrovata nella necessità, strettamente legata alla sopravvivenza, di dover superare il forte trauma subito, di sopportarlo, individuando nel sequestratore caratteristiche positive che rendano meno violento e più tollerabile il vissuto drammatico sperimentato.
Ciò è ancora più valido se non sussistono episodi di maltrattamento, abusi o percosse che addirittura possono generare una forte risposta di gratitudine.
Ci troviamo di fronte ad una vera e propria dipendenza emotiva motivata anche dal fatto che il carceriere detiene il totale controllo sulla vita della vittima, sui suoi bisogni di base, come bere e mangiare, la soddisfazione dei quali aumenta il senso di riconoscenza e l’attribuzione di comportamenti benevoli verso il sequestratore.
In sintesi, è possibile affermare che per risanare la frattura causata dal trauma la mente cerca di mettere in atto modalità strategiche che generino resilienza.
È come se per pura protezione la psiche preferisse estrapolare solo le esperienze a cui dare un significato positivo, così il ricevere cibo o acqua viene sproporzionalmente vissuto come atto di generosità, umanità e manifestazione di cura ed affetto da parte di colui dal quale dipende totalmente la sua stessa vita.
È necessario sottolineare che tale sindrome non si presenta nella totalità dei casi di sequestro o di violenza domestica e ciò dipende dalle caratteristiche di personalità del prigioniero.
Se tra i tratti del suo carattere prevale sicurezza, dominanza e una solida struttura sarà meno predisposto alla manifestazione di un legame di dipendenza, ecco perché è più probabile osservare la sua comparsa nei soggetti più fragili, dalla personalità ancora non consolidata, come i bambini e gli adolescenti.
Il legame affettivo tra la vittima e il carnefice, tipico appunto della Sindrome di Stoccolma, non deve essere considerato come una scelta basata sulla logica e la ragione, ma una risposta puramente inconscia finalizzata alla sopravvivenza e tende a manifestarsi dopo un periodo di tempo, dalla durata variabile, in cui lo stato di shock iniziale, di forte confusione, negazione e senso totale di impotenza lasciano spazio alla dipendenza, all’attaccamento e all’identificazione col carceriere fino a comprenderne o giustificarne le azioni e ad eliminare il risentimento.
Inconsapevolmente ciò produce anche una risposta positiva da parte del rapitore poiché l’atteggiamento accondiscendente ed empatico della vittima disattiverebbe o diminuirebbe il rischio di eventuali reazioni di violenza e aggressività.
È possibile quindi affermare che il comportamento compiacente, dipendente e di legame affettivo che giunge alla totale sottomissione della vittima sia un modo non razionale di garantirsi l’incolumità.
Qual è l’origine di questo singolare nome attribuito alla sindrome?
Il termine deriva da un evento risalente al 1973 nella città di Stoccolma dove, a seguito di una rapina in una banca locale, vennero sequestrati per sei giorni quattro impiegati.
La vicenda fece scalpore poiché, dopo la liberazione, i sequestrati mostrarono sentimenti di alleanza e gratitudine verso il rapitore mentre di contro manifestavano un timore maggiore per le forze dell’ordine intervenute a liberarli.
Non è possibile definire a priori la durata della sindrome dopo la condizione di liberazione, ma sussistono sintomi psicologici che si riscontrano comunemente come fobie, ricordi a flash dell’esperienza della prigionia, incubi e disturbi del sonno che necessitano di un sostegno psicoterapeutico e/o psicofarmacologico finalizzato alla rielaborazione e al superamento del forte trauma subito.
Per approfondire:
- Borgioni M., Dipendenza e controdipendenza affettiva, Alpes, 2015;
- Gulotta G., Vagaggini M., Dalla parte della vittima, Giuffrè, 1980;
- Nazare Alga I., La manipolazione affettiva, Ultra, 2014.
Autrice: Ilaria Corona